terça-feira, 20 de abril de 2010

Congiuntura cattolica internazionale: la relazione con le religioni

PRIMO: AFFERMARE L’IDENTITÀ CRISTIANA.

I TIMORI DELLA CHIESA IN TEMPI DI PLURALISMO RELIGIOSO

DOC-1870. JUIZ DE FORA-ADISTA. La parola d’ordine è mostrare i muscoli. Di fronte alla crescita del pluralismo religioso, all’indebolimento delle istanze religiose tradizionali, ai rischi di relativismo, l’intenzione  della Chiesa - scrive il teologo brasiliano Faustino Teixeira, del Dipartimento di Scienze religiose dell’Università Federale di Juiz de Fora, in Minas Gerais - è presentare un cattolicesimo saldo e compatto, sostenuto da una chiara dottrina teologico-morale. In quest’epoca di restaurazione, non c’è posto allora per una prospettiva missionaria “umanizzata” e “regnocentrica”: occorre puntare “sulla centralità di Gesù e sulla necessità della Chiesa come ‘cammino normale di salvezza’”. Da qui l’insistenza sull’unicità e sull’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa cattolica e da qui l’“offensiva” affermazione, contenuta nella Dominus Iesus, sulla “situazione gravemente deficitaria”, rispetto alla pienezza dei mezzi di salvezza posseduta dai cattolici, in cui si troverebbero i seguaci delle altre religioni. Di seguito ampi stralci dell’intervento di Teixeira.

 

CONGIUNTURA CATTOLICA INTERNAZIONALE: LA RELAZIONE CON LE RELIGIONI

Faustino Teixeira


Introduzione

L’obiettivo di questo articolo è presentare in forma sintetica alcuni tratti che caratterizzano la congiuntura internazionale cattolica sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. È chiaro che non si pretende di affrontare tutti i punti di questo complesso quadro della vita della Chiesa cattolico-romana, ma solo di indicare alcune piste che delineino il profilo della vita ecclesiale in questo periodo, e particolarmente il modo in cui si è venuta affermando la relazione della Chiesa con le altre tradizioni religiose.

Non si può considerare concretamente questo periodo che comprende il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) e l’inizio del pontificato di Benedetto XVI senza situare prima la realtà del cattolicesimo romano nel contesto attuale di globalizzazione e pluralità religiosa (...). Collegato al fenomeno della globalizzazione è quello dell’emergenza di un “ordine sociale post-tradizionale”, per usare un’espres-sione di Anthony Giddens, secondo cui ciò non significa che in questo nuovo ordine la tradizione sparisca, ma solo che “cambia il suo status”. Le tradizioni sono ora “forzate a dichiararsi”, “devono spiegarsi, devono aprirsi agli interrogativi e al discorso”.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolico-romana, troviamo in essa, negli ultimi 28 anni, un discorso chiaramente segnato dall’affermazione dell’identità cristiana. Un’affer-mazione che diventa sempre più forte nella misura in cui cresce la dinamica del pluralismo religioso. Curiosamente, la diffusione del pluralismo, se può essere espressione di un certo grado di apertura o tolleranza verso le altre tradizioni religiose, può al contempo accentuare e rafforzare le eredità confessionali. È questo che sta succedendo negli ultimi anni, accompagnando il fenomeno della crisi delle “istituzioni tradizionali produttrici di senso”. Come indica Pierre Sanchis, “la deistituzionalizzazione corrisponde per contrasto, da parte delle istituzioni, ad un rafforzamento delle affermazioni identitarie”.

Con la facilità di comunicazione favorita dalla globalizzazione, le differenze fra credenze diventano più direttamente visibili e di percezione immediata, suscitando spesso resistenza, preoccupazione, tensione e sospetto. Il crescente pluralismo religioso instaura, in verità, una situazione di “dissonanza cognitiva, nella misura in cui destabilizza le “auto-evidenze degli ordini di senso” (...). Nell’accentuarsi di tali dissonanze, il pluralismo provoca in individui o in gruppi un sentimento di insicurezza. Secondo Sanchis, “l’insistenza esclusiva sulla relativizzazione (...) può suscitare un’insicurezza intellettuale, affettiva ed emozionale che rende assoluto il desiderio di stabilità e di radicamento, precipitando intere generazioni nei movimenti fondamentalisti”.

Osservando i dati sulla distribuzione della popolazione  mondiale rispetto alle varie religioni, si nota che il cristianesimo costituisce il blocco religioso più numeroso, arrivando a circa 2 miliardi di adepti, il che significa, approssimativamente, il 33% della popolazione mondiale, stimata in circa 6 miliardi e 200 milioni di persone. A seguire viene l’islam, con circa 1 miliardo e 300 milioni di fedeli (22%), poi l’induismo, con 900 milioni (15%) e il buddismo, con 360 milioni (6%). Bisogna registrare anche il numero di quanti si definiscono non religiosi (agnostici, atei, o che si riconoscono in forme secolari di affermazione di senso), stimato intorno al 15% della popolazione mondiale.

In questa mappa della presenza mondiale delle religioni bisogna sottolineare il peculiare posto occupato dall’islam. Si tratta della seconda forza religiosa mondiale e quella che registra la crescita più sostanziosa, avendo triplicato il numero dei suoi fedeli fra il 1960 e il 2003. La maggior parte dei suoi adepti si trova in Asia (865 milioni) e in Africa (359 milioni) (...). Ma questa tradizione religiosa estende il suo manto anche sull’Europa “secolarizzata”, essendo oggi la seconda maggiore religione in Francia, Germania ed Inghilterra. La presenza musulmana in Europa è dovuta alla presenza di giovani immigrati, come succede in Francia. Per essi diventare musulmani significa dotarsi di un’identità riconosciuta e ottenere autostima. La religione emerge come il luogo dell’affermazione della cittadinanza, della conquista di dignità e della costruzione dell’individualità.

Occorre segnalare anche l’impressionante crescita del pentecostalismo, al punto che si può parlare di una “rivoluzione pentecostale”. Se all’inizio del secolo poteva contare sullo 0,9% circa di fedeli nel blocco cristiano, alla fine del secolo XX giunge a rappresentare il secondo segmento in ambito cristiano, con circa 523 milioni e 700 mila adepti (intorno al 26,2%), appena sotto il cattolicesimo (52,8%). Come indica Oscar Beozzo, “i pentecostali sono il gruppo più numeroso in Africa (34,9%), superando i cattolici (33,4%). Superano i cattolici (35,3%) anche in Asia (43,1%). Negli Stati Uniti occupano il secondo posto (30,5%). Anche in America Latina hanno guadagnato il secondo posto, con il 27,2% dei battezzati”.

Riguardo al caso specifico del cattolicesimo romano, sono evidenti i segnali di usura di questa tradizione religiosa a livello mondiale. I cattolici assommano oggi a circa 1 miliardo 30 mila adepti, meno dei musulmani. La loro presenza più forte è in Brasile, con circa 125 milioni di seguaci, e poi in Messico (79.603.000), Italia (56.258.000) e Stati Uniti (54.603.000). In ambito brasiliano, si osserva una tendenza progressiva di riduzione dei  cattolici (...). Ma è a partire dagli anni ’80 che la loro percentuale scende sempre più, come indicano i dati dei censimenti demografici: 89,2% nel 1980, 83,3% nel 1991 e 73,8% nel 2001. Caduta accompagnata dalla crescita degli evangelici (15,4% nel censimento 2000) e dei “senza religione” (7,3%).

Questa progressiva pluralità religiosa suscita preoccupazione nelle istanze ecclesiastiche romane. Cosa che ha rafforzato la ricerca e l’affermazione di una identità religiosa più coesa e sicura, a garanzia del mantenimento di una plausibilità minacciata. Ma c’è preoccupazione anche per la crescente diffusione della laicità e dell’indifferenza religiosa nel continente europeo. Per avere un’idea della dimensione del problema in determinati Paesi del Vecchio Continente, un francese sue due oggi si definisce ateo, agnostico o senza religione, e uno su quattordici si dichiara musulmano.

Causa inquietudine in segmenti del magistero ecclesiastico l’emergere di quelli che “credono senza appartenere”. Si tratta di una situazione legata al fenomeno dell’indeboli-mento delle istanze religiose tradizionali. Malgrado la singolare forza della secolarizzazione, essa non riesce a sopprimere “il religioso”, che subisce una metamorfosi in inusitate forme di espressione. Nel campo aperto del “pluralismo dell’offerta religiosa” si incontra un soggetto che si libera del modello unico di esercizio della tradizione, vivendo un’esperienza di autonomia che gli rende possibile scegliere liberamente la forma di adesione, che sia in quella del convertito, del pellegrino o anche del senza religione. (...)

1. La dinamica istituzionale

Questi ultimi tre decenni sono stati caratterizzati dall’af-fermazione dell’identità cattolica e dalla ricerca di chiarificazione della fede. Di fronte al rischio del relativismo e della frammentazione, si cerca di presentare un cattolicesimo saldo e unito, dotato di una chiara dottrina teologico-morale. L’ideale che si afferma è quello del riorientamento e della restaurazione della Chiesa cattolico-romana e della ricerca di un nuovo equilibrio ecclesiale. Fra i tratti della dinamica istituzionale, si possono indicare il timore del relativismo, l’enfasi sull’annuncio esplicito e la centralità della Chiesa.

a) Il timore del relativismo

Per molti non è facile convivere con la condizione di incertezza che accompagna la situazione di pluralismo religioso. Nella misura in cui esso intensifica la relativizzazione o anche il relativismo, sorge come contropartita la seduzione del-l’assolutismo. Questa è la ragione che spiega la plausibilità e il vigore dei progetti che promettono “certezze” nell’attuale momento della società pluralista contemporanea (...).

In un libro che è diventato il simbolo della dinamica restauratrice della Chiesa cattolico-romana, il cardinal Joseph Ratzinger – oggi papa Benedetto XVI – parlava della necessità di un “nuovo equilibrio dopo gli eccessi di una apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni assai positive del mondo agnostico e ateo”. Questa impronta restauratrice segnerà tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, soprattutto dopo la nomina del card. Ratzinger a prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CdF) nel 1982. In diversi testi pubblicati dal card. Ratzinger durante la sua permanenza alla CdF, la preoccupazione del relativismo sarà una costante. In una conferenza pronunciata nel 1993, egli definisce il relativismo “il problema più grave del nostro tempo”, un sentimento di segno illuminista che tocca profondamente la teologia nel tempo attuale. I segni di una “corrente relativista” sono individuati da Ratzinger in tratti della riflessione teologica in corso in India e in America Latina. Il cardinale si mostra critico rispetto a certe tendenze teologiche basate su teorie come quella di Rahner sul “cristianesimo anonimo”, che, a suo modo di vedere, starebbero conducendo ad una visione ingenua dell’universalità della grazia, all’indebolimento della “tensione missionaria” e alla “diminuzione dell’essenzialità del battesimo” (...).

Nella sua enciclica sulla relazione fra fede e ragione, Fides et ratio (1998), Giovanni Paolo II richiama l’attenzione sul rischio del relativismo, identificato come “uno dei sintomi più diffusi, nel contesto attuale, della sfiducia nella verità”, presente nelle forme contemporanee di ricerca, esistenziali, ermeneutiche o linguistiche, che prescindono “dalla questione radicale circa la verità della vita personale, del-l'essere e di Dio”. Il tema viene ripreso nella controversa Dichiarazione Dominus Iesus (2000), della Congregazione per la Dottrina della Fede, sulla questione dell’unicità e della universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa. In questa Dichiarazione, firmata da Joseph Ratzinger e da Tarcisio Bertone, sono messe di nuovo in discussione “teorie di tipo relativistico”, in particolare quelle che metterebbero a repentaglio il “perenne annuncio missionario della Chiesa”. Nel testo del card. Ratzinger si mette in discussione il pluralismo religioso di diritto (iure) o di principio (DI 4), si rileva la “situazione gravemente deficitaria” delle altre religioni (DI 22) e si afferma la comprensione della Chiesa come detentrice della “pienezza dei mezzi salvifici” (DI 22).

La questione torna in ballo in occasione della messa solenne pro eligendo romano pontifice (aprile 2005), nell’ultima omelia pronunciata da Ratzinger prima del conclave che lo ha eletto papa. Nella sua riflessione parla di una “dittatura del relativismo” (...).

Nel corso di questi anni, alcuni teologi che lavoravano al tema della teologia del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso sono stati vittime della “tormenta della repressione romana”, giustificata dall’interpretazione corrente nella curia che l’indifferentismo e il relativismo religioso, presenti nella sensibilità di molti cristiani, troverebbero asilo in “visioni teologiche non corrette” (Redemptoris missio, 36), che dovrebbero essere represse (...).

b) L’enfasi sull’annuncio esplicito

Negli ultimi decenni si è venuta formulando nel magistero della Chiesa cattolico-romana la preoccupazione per l’indebolimento del dinamismo missionario. Per affrontare la questione e la sfida di una “nuova evangelizzazione”, è stata lanciata sul finire del 1990 l’enciclica Redemptoris missio (RMI), sulla validità permanente del mandato missionario. Rispondendo ad appelli di derivazione post-conciliare, Giovanni Paolo II torna ad insistere sull’importanza dell’an-nuncio esplicito come priorità nella missione evangelizzatrice della Chiesa (RMI 44) (...).

Nella nuova posizione assunta c’è una chiara preponderanza dell’annuncio sulla testimonianza e sul dialogo. L’intenzione è di evitare una prospettiva missionaria che si concentri su una linea esclusivamente “umanizzata” e “regnocentrica”, e puntare sulla centralità di Gesù e sulla necessità della Chiesa come “via ordinaria di salvezza”. La nuova evangelizzazione mira anche a reagire al clima di indifferenza religiosa, relativizzazione e secolarismo etico che, nella visione dei vescovi, segna il tempo attuale. Il nuovo “ardore” missionario è visto come un incentivo per una vita spirituale che vive “momenti di incertezza” in questo tempo di crisi (...).

c) La centralità della Chiesa cattolico-romana

Merita di essere segnalata, nella dinamica istituzionale che è venuta affermandosi negli ultimi anni, anche la salvaguardia del ruolo universale della Chiesa visibile e significante, intesa come struttura istituzionale e visibile (segno sacramentale). Per quanto il percorso teologico post-conciliare abbia insistito sull’universalità della grazia e sull’enfasi della Chiesa significata, ossia della Chiesa invisibile, della comunione dell’amore agapé, quelli che difendono il peso della Chiesa significante reagiscono con decisione a qualsiasi tentativo di ampliamento degli orizzonti. Così hanno fatto contro la teoria di Karl Rahner sui “cristiani anonimi”, e così continuano a fare contro le nuove tendenze della teologia del pluralismo religioso. (..).

Le nuove riflessioni, sia nella teologia delle missioni, sia nella teologia del pluralismo religioso, indicano prospettive scomode che provocano la reazione della “sensibilità cattolica”. E allora si parte con la denuncia dell’“eclisse di visibilità istituzionale”. Come ha ben evidenziato l’antropologo Pierre Sanchis, questa “eclisse” viene identificata come una “amputazione”, o, su scala minore, uno “squilibrio” nel cammino di fedeltà alla “pienezza cattolica”. E secondo questa tendenza, la pienezza non può essere raggiunta esclusivamente vivendo i valori evangelici o professando una fede implicita; essa esige invece l’inserimento nel “corpo sociale e sacramentale della Chiesa”. (...).

Nel solco aperto da Pio XII, con l’affermazione della necessità della Chiesa per la salvezza (la Chiesa come “mezzo” di salvezza - DzH 3868 [la sigla si riferisce alla nuova edizione dell’Enchiridion symbolorum di Heinrich Denzinger]), il Concilio Vaticano II, nella sua Costituzione Dogmatica Lumen gentium, riprende questa stessa idea, articolandola con l’unicità della mediazione di Gesù Cristo (LG 14 – DzH 4136). E sottolinea ugualmente, sulla base dell’enciclica Mystici Corporis (Pio XII – DzH 3821), l’ordinazione (ordinantur) di tutti i “non-cristiani” alla Chiesa come Popolo di Dio (LG 16 – DzH 4140).

Questa preoccupazione della centralità della Chiesa sarà altrettanto presente sotto Paolo VI, che, nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) riafferma l’idea della Chiesa cattolica come via “ordinaria” di salvezza (EN 80). Egli riconosce il “patrimonio” religioso delle altre tradizioni religiose, ma indica che esse esprimono una “ricerca incompleta”. Si tratta di “espressioni religiose naturali”, umane, che traducono una “ansia” o ricerca di Dio ‘a tentoni’ (...). La Chiesa cattolica, identificata con la “religione di Gesù”, è – per Paolo VI – l’unica religione che “instaura effettivamente una relazione autentica e viva con Dio”, in quanto le altre tradizioni rimangono solo orientate verso tale pienezza, con le “loro braccia tese verso il cielo” (EN 53).

L’enfasi sulla centralità della Chiesa cattolica permane sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Il trattamento riservato alle altre religioni e le prospettive reali di dialogo interreligioso sono ancora assai timidi, malgrado le novità importanti dei gesti di dialogo di papa Wojtyla. Uno sguardo più critico sui documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta all’epoca dal card. Ratzinger rivela posizioni assai restrittive rispetto al luogo e al valore delle altre tradizioni religiose nel disegno salvifico di Dio. Troviamo un vivido esempio di questa prospettiva nella Dichiarazione Dominus Iesus (DI), già citata. Affrontando la questione dell’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, la Dichiarazione traduce tre prospettive puntuali riguardo alla relazione con le altre religioni. In primo luogo, un inquadramento del pluralismo religioso. Si constata un chiaro timore del pluralismo religioso e del rischio relativista che può accompagnare il riconoscimento della sua positività. Si contesta il “pluralismo di principio” come forma di reazione al rischio delle “teorie relativiste” che starebbero mettendo in discussione il “perenne annuncio missionario della Chiesa” (DI 4). In secondo luogo, una restrizione all’ecumenismo. In ragione di una ferma convinzione riguardo alla “verificazione” dell’unica religione vera nella Chiesa cattolica e apostolica (DI 23), la Dichiarazione restringe il concetto di Chiesa alla Chiesa cattolica, riconoscendo nelle altre denominazioni appena degli “elementi” di ecclesialità, a motivo della loro comunione “imperfetta” con la “vera” Chiesa (DI 17). In terzo luogo, l’attribuzione di minorità alle altre tradizioni religiose. Sulla base della ferma convinzione della necessità della Chiesa cattolica per la salvezza (DI 20), le altre tradizioni religiose saranno individuate come espressioni provvisorie, in cammino verso una fioritura più autentica nell’unico cammino di salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica (...). E, in modo chiaramente offensivo, si sottolinea che gli adepti di queste tradizioni si trovano oggettivamente “in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici” (DI 22).

Non ci sono cambiamenti significativi rispetto alla direzione della dinamica istituzionale della Chiesa nell’inizio di pontificato di Benedetto XVI, ma ci sono nello stile della presenza. Nella felice espressione di Alberto Melloni, si tratta di un pontificato sotto il segno della “decantazione”. Lo stile non è lo stesso di papa Wojtyla, dei grandi gesti, della performance televisiva, della pletora di discorsi, dei viaggi innumerevoli. Si tratta di uno stile più introspettivo, segnato da una presenza intellettuale più definita. Abbiamo ancora un “iter papae rallentato, chiuso nel circuito geografico, ma soprattutto culturale dell’Europa”, senza quella voracità di popoli e mondi che hanno contrassegnato il pontificato anteriore. Ma, allo stesso tempo, un iter molto sicuro rispetto al progetto di affermazione dell’identità della Chiesa e della dinamica della sua continuità con la tradizione.

2. Percorsi di dialogo: gesti e ambiguità

Secondo l’attento vaticanista italiano, Giancarlo Zizola, il pontificato di papa Giovanni Paolo II è stato segnato da gesti “simbolici” e “fondanti”. Quello che c’è di “inedito” e quello che rimarrà nella memoria storica non è tanto la natura dei cambiamenti istituzionali da lui realizzati, quanto i suoi gesti simbolici e “ricchi di futuro”. Ha lasciato come eredità luci ed ombre (...).

Fra i gesti più significativi del pontificato di Giovanni Paolo II, in relazione al dialogo interreligioso, c’è la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, realizzata nell’ottobre del 1986 ad Assisi. (...).

Nuovi gesti importanti sono avvenuti nel dialogo con l’islam. È stato un grande segno l’incontro con i 50mila giovani musulmani dello stadio di Casablanca (Marocco), nel 1985. È stato il primo papa nella storia a dar vita ad una simile iniziativa. E a chiamare i musulmani “fratelli”, riconoscendoli partecipi della numerosa famiglia di Abramo. Nel suo bel discorso il papa riconosce quello che c’è di comune nelle due famiglie religiose, in particolare la fede nello stesso Dio misericordioso (...). Insiste sull’importanza di una invocazione a Dio che sia accompagnata dall’esercizio della fraternità, come pure sul necessario rispetto dell’altro e sul reale esercizio della reciprocità. Riconosce anche la grande ricchezza che anima la tradizione spirituale dell’islam e la qualità del suo cammino religioso, e richiama all’imperativo del rispetto e dell’esercizio comune nelle azioni positive nel cammino di Dio (...).

Nel dialogo con le religioni dell’Oriente si sono registrati altri gesti simbolici, come, nel 1984, l’incontro con il patriarca supremo dei buddisti tailandesi. Arrivato al monastero di Vanada Tara, il papa si toglie le scarpe e sale sulla pedana in cui il grande leader buddista era in meditazione. È stato un dialogo “senza parole”, ma animato da grande rispetto e riverenza reciproci. I due leader si sono fissati vicendevolmente per circa cinque minuti, secondo il costume locale. Il papa si è espresso sui buddisti in varie occasioni, come nel discorso ai seguaci delle varie religioni degli Stati Uniti, nel settembre del 1987, quando ha manifestato il suo grande apprezzamento per lo “stile di vita” buddista, “basato sulla compassione, sull’amorosa bontà e sul desiderio di pace, prosperità ed armonia per tutti gli esseri viventi” (...).

Altri gesti sono stati indirizzati da Giovanni Paolo II agli ebrei, a cominciare dalla storica visita alla sinagoga di Roma, nell’aprile del 1986. Il papa è stato ricevuto nella sinagoga dal rabbino Elio Toaff, la prima visita nella storia di un papa al simbolico luogo religioso degli ebrei. Nel suo discorso ai rappresentanti della comunità ebraica di Roma, il papa chiama gli ebrei “fratelli prediletti”, che condividono con i cristiani un “comune patrimonio spirituale”. Il tratto più innovativo della sua presenza nella sinagoga è stato quando ha parlato di “vocazione irrevocabile” di Israele, riprendendo un’idea già espressa nel 1980 nella visita compiuta a Magonza, in Germania, quando aveva affermato che l’antica alleanza non è mai stata revocata (...). Come ha ben sottolineato Claude Geffré, la presa di coscienza della irrevocabilità dell’antica alleanza e della irriducibilità di Israele, ha aperto spazi fondamentali per la coscienza della irriducibilità delle altre tradizioni religiose, oggi difesa ardentemente da innumerevoli teologi. È stata la strada che ha reso possibile la coscienza del pluralismo religioso di diritto o principio, e la percezione, essenziale per il dialogo, del valore delle convinzioni religiose degli altri e il riconoscimento della loro positività nei disegni misteriosi di Dio o del Mistero Maggiore.

Bisogna però segnalare la presenza di difficoltà e ambiguità nel campo della relazione con le altre religioni. Nella questione ecumenica, per esempio, il solco d’apertura lasciato da alcuni documenti importanti, come la lettera enciclica Ut unum sint (1995) sull’impegno ecumenico, viene oscurato dalla prospettiva ecclesiocentrica di altri testi, come la Dominus Iesus (2000). L’unione più grande con le Chiese d’Oriente resta una sfida aperta. Permane, come ha sottolineato il vaticanista Luigi Accattoli, un certo “fallimento ecumenico in Oriente”, motivato in parte dalle resistenze dell’ortodossia russa. La congiunzione di fattori come la ripresa del nazionalismo russo dopo la caduta del comunismo e l’azione problematica dei cattolici uniati ha finito col rendere più difficili le relazioni della Chiesa cattolico-romana con il patriarca Alessio II, esponente massimo della Chiesa ortodossa nella regione.

Si è parlato dei gesti di apertura di Giovanni Paolo II nell’ambito della relazione con l’islam. Non ci sono dubbi sulla loro forza simbolica. Ma in alcuni momenti emergono nella congiuntura ecclesiastica “lapsus” che rivelano una prospettiva cattolico-centrica. Nel libro-intervista di Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza (1994), il papa elogia la religiosità dei musulmani e la loro “fedeltà alla preghiera”, ma, parlando di Dio nel Corano, commette lo svarione di affermare che si tratta di “un Dio fuori dal mondo, un Dio che è solo Maestà, mai Emanuele, Dio-con noi”. Il fatto che Dio sia trascendente, grandioso e altissimo (Corano 13,9), al di là del transitorio e dell’effimero, non significa che sia distante ed insensibile ai cammini dell’umano. In realtà, secondo il Corano, “siamo più vicini a lui della sua stessa vena giugulare” (Corano 50,16).

La delicata relazione della Chiesa cattolica con il mondo musulmano ha subìto uno scossone nel pontificato di Benedetto XVI dopo il discorso pronunciato dal papa all’Univer-sità di Resensburg, il 12 settembre del 2006. (...). Si tratta di un “discorso politicamente scorretto” sulla tentazione della violenza nell’islam in un momento estremamente delicato della congiuntura politica internazionale: cinque anni dopo i fatti dell’11 settembre.

Con un mutamento di prospettiva rispetto al suo predecessore, Benedetto XVI cerca di rafforzare ancor di più la difesa dell’identità e la preservazione del patrimonio tradizionale della Chiesa cattolico-romana. Evita di dar seguito agli incontri interconfessionali, come quello di Assisi, e comincia a parlare di “dialogo tra le culture e le religioni”, dialogo con le “diverse civiltà”. Un segno esplicito di questa nuova prospettiva è venuto dalla decisione del papa di destituire Michael Fitzgerald dall’incarico di presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso - all’interno del quale esiste una commissione per le relazioni religiose con i musulmani - nominandolo nunzio apostolico in Egitto. Gli analisti vedono in ciò un chiaro segno dell’allontanamento del pontificato dallo “spirito di Assisi”, di cui Fitzgerald era uno dei più entusiasti.

Tratti di ambiguità traspaiono anche nelle relazioni con il buddismo. Nel libro-intervista di Giovanni Paolo II già citato, c’è un passaggio in cui il papa identifica il buddismo in un certo senso come un “sistema ateo”, minimizzando la forza dell’illuminazione di Budda e relativizzando la forza della mistica buddista. Le riflessioni del papa provocarono reazioni giustificate fra i buddisti, soprattutto perché presentavano una visione sfocata ed errata di questa ricca tradizione religiosa. I leader buddisti dello Sri Lanka boicottarono la visita del papa nel Paese, nel 1993, e leader spirituali come Tich Nhat Hanh espressero il loro malcontento per la “caricatura” offerta.

Posizioni simili rivelano una carenza di consiglieri specializzati, ma anche limiti sul terreno della formazione interreligiosa, della cortesia e della delicatezza spirituale. (...).

In sintesi, la congiuntura che distingue il cattolicesimo romano in ambito internazionale viene dialetticamente segnata da dinamiche in tensione. C’è un cammino istituzionale caratterizzato dalla centralizzazione ecclesiastica e dal blocco delle prospettive di apertura in campi diversi come l’esperienza della collegialità dei vescovi, dell’autonomia del laicato, dell’affermazione delle chiese locali, della cittadinanza ecclesiale della donna, della morale sessuale e dell’aper-tura ecumenica ed interreligiosa. Ma sono presenti simultaneamente gesti peculiari che puntano ad una direzione diversa, anche se sfiorati o impacciati da contraddizioni e ambiguità che scoraggiano quanti credono nel sogno di una Chiesa partecipativa e aperta alle sfide del futuro.

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